Nasce, oggi più che mai, l’esigenza di dare senso alle parole, alle cose, ai rapporti umani, alla politica, intesa come categoria nobile dell’agire collettivo.
Le nostre parole sono spesso prive di significato, perché le abbiamo consumate, svuotate con un uso eccessivo e inconsapevole. Per raccontare dobbiamo rigenerare le nostre parole, per fare questo dobbiamo farle a pezzi e ricostruirle e questa procedura si chiama manomissione, che ha un duplice significato:
- il primo è sinonimo di alterazione, violazione, danneggiamento;
- il secondo deriva dal diritto romano (manumìssio) ed è la cerimonia di liberazione dello schiavo e sinonimo di liberazione, emancipazione.
La democrazia è discussione, è un punto comune, si fonda sulla circolazione delle opinioni e delle convinzioni e lo strumento privilegiato di questa circolazione sono le parole. Infatti poche parole, poche idee, poche possibilità e poca democrazia, più sono le parole che si conoscono più ricca è la discussione politica e con essa la vita democratica. La proporzione della ricchezza delle parole, delle possibilità e della democrazia è scientificamente provato da numerose ricerche. I ragazzi più violenti hanno strumenti linguistici scarsi e inefficaci sul piano del lessico, della grammatica e della sintassi, non sono capaci di gestire una conversazione, non riescono a modulare lo stile della comunicazione, il tono, il lessico in base agli interlocutori e il contesto, non fanno uso dell’ironia e della metafora. Non sanno sentire, non sanno nominare le proprie emozioni, spesso non sanno raccontare.
Il decalogo dell’etica democratica include:
- La fede in qualcosa.
- La cura della personalità individuale.
- Lo spirito del dialogo.
- Il senso di uguaglianza.
- L’apertura verso la diversità.
- La diffidenza verso le decisioni irrevocabili.
- L’atteggiamento sperimentale.
- La responsabilità di essere maggioranza e minoranza.
- L’atteggiamento altruistico.
- La cura delle parole.
Quando manca la capacità di nominare le cose o le emozioni, manca il meccanismo di controllo della realtà e di se stesso. Infatti una volta detta una parole è fatta e devi accettarne le conseguenze. Le parole sono anche atti dei quali è necessario fronteggiare le conseguenze e se sembrano non avere peso e consistenza, sembrano entità volatili, sono in realtà meccanismi complessi il cui uso genera effetti e dovrebbe implicare responsabilità. Le parole fanno le cose.
Esiste un fenomeno inquietante e pericoloso, un processo patologico del linguaggio, che si realizza attraverso l’occupazione della lingua e l’abuso di parole chiave del lessico civile e politico: L’antilingua e il burocratese, l’antilingua è spiegata da Italo Calvino e il burocratese è ben argomentato da Daniele Fortis.
Nell’antilingua i significati sono costantemente allontanati, relegati in fondo a una prospettiva di vocaboli che di per se stessi non vogliono dire niente o vogliono dire qualcosa di vago e sfuggente” […]
Spiega Daniele Fortis: la lingua dei burocrati è proverbialmente oscura e poco accessibile al comune cittadino, tanto da essersi guadagnata l’appellativo di burocratese, termine ironico e spregiativo, di coniazione relativamente recente…,che designa «il linguaggio complesso e oscuro usato, per abitudine e mancata attenzione alla chiarezza, nel settore della burocrazia dai funzionari che vi operano»…
Nel saggio Il plain language Fortis scrive: “Si impiegano parole difficili per esprimere idee banali, si sfoggiano termini pseudo-tecnici che potrebbero essere sostituiti da parole comuni senza dispersione di significato”.
Il plain language è il linguaggio che trasmette al lettore informazioni in possesso dello scrittore nel modo più semplice ed efficace possibile. Scrivere in plain language significa individuare tutte e solo le informazioni di cui il lettore ha bisogno, per poi organizzarle ed
esporle in modo che abbia buone probabilità di comprenderle.
Le ideologie c.d. competitive molto spesso saccheggiano e decompongono la lingua della comunità, manipolandola e usandola come un arma. La lingua totalitaria si rifà spesso a una lingua straniera e muta il valore delle parole trasformandolo in patrimonio comune. L’effetto maggiore non è dato dai discorsi o dagli articoli, ma dalle singole parole o frasi ripetute milioni di volte, imposte alla massa e accettate meccanicamente e inconsciamente.
Scegliamo adesso delle parole di uso comune per manometterle e dar loro nuova vita. Partiremo da vergogna, poi giustizia, ribellione, bellezza e scelta.
Dante parla della vergogna al trentesimo canto dell’Inferno e sente “tal vergogna che ancora per la memoria mi si gira”.
La vergogna è un sentimento di mortificazione derivante dalla consapevolezza che un atto, un comportamento, un discorso sono sconvenienti. La vergogna è da un lato un sentimento individuale, ma allo stesso tempo sociale e di responsabilità. La capacità di provare vergogna implica il suo contrario l’onore, la dignità. Così come il dolore fisiologico è un meccanismo che mira alla cura della salute fisica, anche la vergogna è un sintomo e chi non è capace di provarla rischia di scoprire troppo tardi di aver contratto una grave malattia morale. La consapevolezza e accettazione della vergogna permette il miglioramento.
Chi non prova vergogna non frequenta la giustizia, la rifugge.
La giustizia si identifica con la legge, i giudici, la giustizia civile e penale. L’art. 3 della Cost. enuncia l’uguaglianza formale di tutti i cittadini dinanzi alla legge. È importante vedere la giustizia come uguaglianza, la giustizia è il primo requisito delle istituzioni sociali, così come la verità per i sistemi di pensiero.
Perché vi sia vera libertà è necessario che tutti siano sottoposti alla legge, perché le leggi sono più potenti degli uomini, se in uno stato c’è un uomo che sia più potente delle leggi, non esiste la libertà dei cittadini, tutt’ al più quella dei sudditi.
Dante afferma che l’osservanza delle leggi se lieta, se libera, non solo non è schiavitù, ma è anzi a chi ben guardi, essa stessa suprema libertà.
La parola giustizia non può fare a meno della parola ribellione.
Ribellione intesa come etica della responsabilità, come affrancamento della schiavitù mentale. È un’arte difficile e perduta quella di dire “NO”. Il “NO” non è una mera negazione, può essere un proposito creativo. Ogni rivoluzione nasce da un No, mi rivolto dunque siamo.
Hannah Arendt ricorda come la politica in quanto estranea alla violenza si realizza nel discorso e nel trovare le parole opportune al momento opportuno.
Dobbiamo ribellarci sempre anche alla manipolazione delle parole perché anche solo chiamare le cose con il loro nome è un atto rivoluzionario e ribellarsi diventa un gesto di autonomia e responsabilità, ribellarsi è andare oltre l’obbedienza ottusa.
La ribellione è la via della bellezza.
La bellezza non fa la rivoluzione, ma la rivoluzione ha bisogno di lei, mettendo la bellezza al centro delle riflessioni. È il pane del suo cuore.
La bellezza è giustizia, è funzione vitale, infatti la poesia, la bellezza, il romanticismo, l’amore ci tengono in vita.
Il bello sceglie in noi la purezza del reale.
La saggezza è capacità di osservare criticamente il reale, di ribellarsi allo squallore, è giudizio, progetto, etica è capacità di scelta. La facoltà di scelta si nutre di libertà. Scegliere è dare forma all’indefinito. Come dice Hannah Arendt è rimedio all’imprevedibilità, è la facoltà di fare e promettere, cioè progettare con coraggio il futuro.
Chi vive veramente non può essere indifferente.
L’indifferenza è parassitismo, è vigliaccheria. L’indifferenza è il peso morto della storia è la palla di piombo per l’innovatore, è la materia inerte in cui affondono gli entusiasmi più splendenti. L’indifferenza è la fatalità , la passività è ciò di cui non si può contare e ciò che sconvolge i programmi e rovescia i piani meglio costruiti è la materia bruta che si ribella all’intelligenza e la strozza.
Allegria, sorpresa, gioco, intelligenza, conoscenza, entusiasmo, umorismo, scoperta, rischio, giustizia, ribellione, bellezza, coraggio e gentilezza sono le parole che sentiamo gravitare nella scelta.
Scelta è ribellione non violenta, pratica della giustizia, della bellezza e dell’eleganza e salvezza dalla vergogna.
Scelta come atto di coraggio, di allegria e responsabilità, scelta come atto di continua reinvenzione del mondo.
2 pensieri su “Diamo un senso alle parole, manomettiamole. Le parole sono atti, le parole fanno le cose.”